Il pellegrinaggio verso il Tempio e la festa della Pasqua costituiscono il tempo più rilevante per la fede d’Israele, centrale e fondante rispetto al culto, momento in cui si celebra il memoriale dell’Alleanza, nel sangue di un agnello.

È il periodo in cui la capitale diventa il crocevia di incontri e di esperienze, di culture. Non solo ebrei osservanti, ma anche i cosiddetti Gentili, rappresentanti di altre genti, interessati a conoscere i testi della Sacra Scrittura e probabilmente incuriositi, se non proprio attratti dalla professione di fede in Dio, proclamato dal suo popolo come unico e vero. La fama di Gesù si è allargata a macchia d’olio, lo ha preceduto nel suo ingresso a Gerusalemme, è cresciuta intorno a lui l’aspettativa di tanti, affascinati oltretutto dalle notizie riguardanti la resurrezione di Lazzaro. Non stupisce, quindi la richiesta rivolta a Filippo da alcuni Greci: «Signore, vogliamo vedere Gesù». Il che rappresenta tuttavia un fatto unico nel racconto evangelico, senza precedenti e senza continuità nell’ordine del tempo. Il passaparola tra i discepoli Filippo e Andrea, nomi attinenti anch’essi all’ambiente ellenista, anziché essere premessa di un dialogo, come ci aspetteremmo, pone le basi di alcune considerazioni dello stesso Gesù. Siamo al momento decisivo, atteso dalle genti e annunciato dai profeti: «È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato». Un’ora drammatica e magnifica. Una Pasqua nuova sta per essere celebrata, Dio stringerà una nuova alleanza, destinata stavolta non solo al più piccolo tra tutti i popoli, ma estesa a tutti i popoli, all’umanità intera, per portare a compimento il disegno del Padre, fare di Cristo il cuore del mondo.

Non riferimenti a marce trionfali, né accenti solenni o intonazioni di inni di vittoria. L’unica dichiarazione solenne di rivelazione, rafforzata dalla forma geminata “in verità, in verità vi dico…” introduce la parabola del chicco di grano. Immagine familiare, immediata, che ribadisce la logica semplice dell’amore disposto a donare la vita: quella che Dostoevskij definisce “la forza dell’umile amore”. Un gesto di coraggio teso a vincere l’egoismo sterile, capace di mostrare i muscoli, poi solo di portare solitudine e malinconia, mai di generare vita.

Bisogna pensare a sé stessi. Il ritmo incalzate degli impegni, la velocità, con cui riempiamo il tempo di corse affannate, accresce la nostalgia di spazi vergini, in cui ritrovare se stessi, del silenzio che apre alla preghiera, della serenità di relazioni semplici e autentiche. Trovare nella gioia del riposo l’oasi di pace per rimarginare le ferite dell’anima. Mai, però, restringere l’orizzonte e il campo d’azione, pensando “solo” a sé stessi. La tentazione subdola di un “sano egoismo” inaridisce il germogliare della vita. “Il tentativo di preservare mondanamente (cioè senza e contro gli altri) la propria vita attuale, l’unica che abbiamo, significa perderla ora e poi per l’eternità”(Ludwig Monti). Una vita senza slanci, appiattita sulla praticità e incapace di sognare, non ha sbocchi verso l’infinito, verso il desiderio di ulteriorità, che abita il cuore di ogni essere umano e spinge i figli e le figlie di Eva a solidarizzare con tutto il creato. Arroccarsi in difesa significa essere destinati a perdere, restando delusi, mentre la vita sfugge, come sabbia tra le dita.

Vale la pena di amare? Certo! Anche se comporta pur sempre una pena! E la sofferenza rende più alto il prezzo della Speranza, secondo lo spunto di Bonhoeffer, parafrasato e sviluppato da don Tonino Bello.

Servire Dio vuol dire seguire la strada tracciata dal Figlio dell’uomo. Seguirlo, senza la pretesa di passargli avanti, facendo morire l’uomo vecchio, che con egocentrica referenzialità finirebbe per impedire la rinascita a vita nuova.

In questa feritoia di tempo, tra l’antica e la nuova alleanza, mentre la missione del Cristo volge al termine e sta per acquisire un senso pieno in una luce nuova, l’autore del testo evangelico colloca sulle labbra di Gesù una invocazione al Padre, per esprimere il turbamento di fronte al compiersi dell’ora per cui è venuto al mondo. Una preghiera e un atto di affidamento che richiama il tenore del dialogo con il Padre che i vangeli sinottici collocano nel Getsemani. Nel film “La Passione di Cristo” Mel Gibson pone il momento del Getsemani come il punto in cui confluisce tutta la sofferenza dell’umanità. Il grido di Cristo raccoglie ogni tragedia, ogni grido innocente di fronte al dolore, all’assurdità della guerra, all’iniquità, alle divisioni laceranti. In questa scena drammatica, mentre il Cristo di dispone a prender su di un tale peso, sullo sfondo il tentatore si
apposta, pronto per l’ultima decisiva battaglia.

L’evangelista Giovanni nell’incontro coi popoli pagani prospetta la glorificazione del Messia: come chicco di grano farà germogliare la vita, come Agnello senza macchia, nel suo sangue la morte sarà vinta e sarà precipitato l’accusatore. «Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori». Il giudizio, in greco crisis, indica il momento decisivo, il punto di svolta. Il male è entrato nel mondo per invidia del diavolo, ora nell’estenuante battaglia tra luce e tenebre, sarà la forza dell’umile amore, del seme che muore nella terra a prevalere sull’inganno, sulla falsità, sulla violenza, sul dolore e sulla morte stessa, in modo definitivo. L’elevazione sulla croce rappresenta il momento più basso dell’umiliazione, e il punto più alto, sul monte, per rivelarsi al mondo, dove inizia la glorificazione della nuova Pasqua, della nuova Alleanza. Gli sguardi di tutta l’umanità sono rivolti in alto, al Figlio dell’uomo divenuto modello della nuova umanità. La sua vita, la sua croce sono il punto più alto dell’Amore, un amore che attira, dono che rigenera. In attesa dell’alba del giorno dopo il sabato, “noi staremo ad ascoltare la crescita del grano” (don Tonino Bello).

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